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La vita complicata del doge di Venezia

Preziosa lezione dello storico Alvise Zorzi sulla figura del Doge della Repubblica Serenissima di Venezia, dal titolo “Meglio se molto vecchio
e possibilmente ricchissimo”, che proponiamo in occasione della mostra numismatica nella quale, dal 6 marzo al 5 aprile, sarà esposta a Venezia – nella Biblioteca Nazionale Marciana – l’unica collezione completa al mondo delle monete dogali nella mostra “Oselle veneziane. Il dono dei Dogi”. La mostra è accompagnata dal volume “Il dono dei Dogi” (Cittadella, Biblos, 2009, pagine 351, euro 60) dal quale è tratto il bellissimo brano successivo.
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di Alvise Zorzi
Squilli di trombe, suono di campane a distesa: la processione del doge esce dal Palazzo Ducale la Domenica delle Palme per raggiungere la basilica dopo aver fatto il giro della piazza. Aprono il corteo otto stendardi di seta col leone di san Marco, due bianchi, due rossi, due violacei e due azzurri, che simboleggiano, rispettivamente, la pace, la guerra, la tregua e la lega, seguiti dai “comandadori”, uscieri e banditori pubblici vestiti di bianco, che si riconoscono per uno zecchino d’oro cucito sul berretto a tozzo. Poi vengono sei lunghissime trombe d’argento sorrette da fanciulli riccamente vestiti come i suonatori. Poi, ancora, le “famiglie”, ovvero servitù, degli ambasciatori esteri; indi un concerto di tube e pifferi, gli scudieri del doge, i canonici di San Marco e di San Pietro di Castello e il patriarca di Venezia che benedice il popolo. Segue, preceduta dal cero bianco sorretto da un chierico, la corona o “corno” dogale, portata da uno scudiero. È la “zogia”, il gioiello, col quale il doge viene incoronato in vetta alla Scala dei Giganti; quando cadrà la Repubblica, nel 1797, lo si troverà fregiato di quarantatré gemme, fra le quali un bellissimo diamante e un grosso rubino, e di ventiquattro grosse perle a forma di pera.
Vengono poi i segretari del Senato e del Consiglio dei Dieci, e, preceduto dalla scranna dogale dorata e dal relativo cuscino, pure dorato, il Cancellier grande, capo della burocrazia statale. Infine, preceduto dal “ballottino” (il bambino che aveva estratto dall’urna le schede e le “ballotte” usate nell’elezione dogale), seguito dallo scudiero che regge l’ombrello o padiglione dorato, dagli ambasciatori e dalla Serenissima Signoria preceduta dalla spada di Stato, lui, il doge, il Serenissimo. Indossa il manto di restagno o di broccato d’oro col bavero d’ermellino e grossi bottoni di filigrana d’oro sopra la veste talare di seta, la “dogalina”, che copre i piedi rivestiti di calzari rossi; in capo porta la berretta, o corno d’uso, di velluto o di seta.
Al suo passaggio tutti si scoprono davanti a colui che incarna la maestà dello Stato veneziano. A vederlo, così sfarzosamente abbigliato, non sembra diverso da un monarca, e il cero, la scranna, l’ombrello e il cuscino sono le insegne, tramandate nei secoli, che un tempo accompagnavano e simboleggiavano il potere imperiale bizantino; anche i calzari, i borzacchini di pelle rossa, erano stati un tempo privilegio degli imperatori di Bisanzio. Tuttavia…
“Dose di Veniesia, altramente chiamato Prencipe, è il primo officio che daghi la nostra Repubblica alli soi zentilhomeni benemeriti”. Il nostro grande diarista Marino Sanudo definisce cosi, all’inizio del secolo XVI, la più alta carica dello Stato veneziano. È un officio, cioè una magistratura, ma chi la occupa è Principe, cioè sovrano. E questa è la chiave di lettura per capire chi fosse il doge: capo dello Stato con dignità e attributi principeschi, però magistrato elettivo, scelto fra i cittadini (leggi: i patrizi) benemeriti, a coronamento di una carriera più o meno brillante, una delle pochissime cariche vitalizie della Serenissima Repubblica di Venezia.
Un detto cinquecentesco, latino, definisce esemplarmente la figura del doge: Princeps in sollemnitatibus, cioè sovrano nelle cerimonie solenni, in Curia senator, senatore nelle assemblee costituzionali, in Urbe captious, prigioniero virtuale in città, extra Urbem reus, colpevole se lascia la città, beninteso senza autorizzazione del Maggior Consiglio.
Principe, dunque, capo di uno Stato che, nel periodo della massima potenza, inalbera nel proprio stemma, all’ombra del “corno” dogale, le corone dei regni di Creta e di Cipro, alle quali aggiungerà, dopo le conquiste di Francesco Morosini, quella del regno di Morea, il Peloponneso; di uno Stato che domina per molto tempo uno spazio territoriale notevole: il “Dominio da Tera”, che comprende il Veneto, il Friuli e una grossa fetta di Lombardia, con Bergamo, Brescia e Crema, e il “Dominio da Mar”, che comprende Istria e Dalmazia, le isole Jonie, le Cicladi, una parte delle Sporadi, la grande isola di Creta e, dopo la perdita dell’Eubea (Negroponte per i Veneziani) anche l’altra grande isola mediterranea di Cipro. Uno Stato che, per molti secoli, viene considerato una potenza europea di prima grandezza, tanto che, nel 1509, tutte le altre potenze europee scenderanno in campo per soggiogarla, e non ci riusciranno.
Il doge è considerato in tutto e per tutto un sovrano, e come tale si comporta. Non viaggia come i re o i papi, meno che mai rende visita a principi o potentati forestieri. Li accoglie a Venezia quando vengono a render visita, non tanto a lui quanto alla Serenissima Repubblica; non va mai a visitare le città suddite, le quali gli inviano, invece, i propri rappresentanti. Una scena come quella che si ammira in un dipinto conservato nel Palazzo Ducale di Genova, dove si vede il doge di Genova genuflesso ai piedi del Re Sole, a Versailles, non sarebbe, per il doge di Venezia, nemmeno lontanamente immaginabile: di regola, imperatori e re, lui li tratta da pari a pari.
In Urbe captivus: le autorizzazioni a uscire dal Palazzo gli vengono concesse col contagocce, per consentirgli un po’ di villeggiatura: non certo in luoghi remoti, alla Giudecca per Andrea Vendramin, nel Quattrocento, a Murano per Andrea Gritti, nel Cinquecento, tanto per fare qualche esempio. Nel liberale Settecento il doge può anche uscire di Palazzo, purché in maschera e incognito. Carlo Ruzzini (1732-1734) va volentieri a trovare il vecchio feldmaresciallo von der Schulenburg, eroe della difesa di Corfù contro i Turchi nel 1716, per rievocare con lui i vecchi tempi, e Alvise iv Mocenigo può andare a far visita al neo eletto procuratore di san Marco Almorò Pisani “nel mezzo delle maschere quasi da tutti incognito”, e sorseggiare un caffè “in chicchera giapponese guarnita d’oro, sopra una sottocoppa parimenti d’oro massiccio”. Un altro doge Mocenigo, Alvise iii, eletto nel 1721, scapolo, va addirittura tutte le sere a casa di suo fratello a chiacchierare e a giocare a carte. E va in villeggiatura, come era di gran moda, Marco Foscarini a Stra come Alvise Pisani, Alvise iv Mocenigo nella villa del Belvedere a Cordignano presso Sacile, che era un feudo della famiglia, o a San Bruson presso il Dolo, sulla riviera del Brenta.
Se, poi, il doge cumula l’altissima dignità col comando supremo delle forze navali, come, nei tempi più recenti, Francesco Morosini, l’autorizzazione a lasciare la città è naturalmente implicita. Ma può accadere che il doge venga designato per il comando navale, e non voglia saperne: Cristoforo Moro, nel dicembre 1463, avrebbe dovuto assumere il comando del contingente veneziano della Crociata bandita da Papa Pio ii contro i turchi. Il poveretto, vecchio, malandato e, a suo dire, totalmente digiuno di ogni nozione militare e marittima (”non era bon, salvo che star con frati”, commentava acidamente un cronista), si dichiara inadatto a sostenere l’incarico. Gli viene risposto che avrebbe dovuto pensarci prima, ormai tutto l’Occidente si aspetta che il doge di Venezia prenda parte alla spedizione e far macchina indietro sarebbe una perdita di credibilità; quanto alle scuse, il consigliere Vettor Cappello si alza e gli dice che è necessario che vada e che “la Terra”, cioè la Patria, non può fare a meno di “adoperar la so persona per le occorentie di questi tempi”.
Che, poi, il Serenissimo Principe fosse virtualmente prigioniero in città, lo si desume facilmente dalla somma di impegni che lo coinvolgevano in prima persona e ai quali gli era difficile, se non impossibile, sottrarsi tranne il caso di malattia, e malattia grave: dogi ammalatissimi si trascinano, a forza di volontà, ma non rinunciano ai propri doveri, obblighi politici, dall’apertura quotidiana (con l’assistenza di almeno quattro consiglieri ducali) dei dispacci di ambasciatori e rettori di città e province, inviati nominalmente a lui, ma effettivamente alla Serenissima Signoria o al Senato, alla presenza alle sedute delle assemblee, Collegio ogni mattina, Senato tre o quattro volte la settimana, Consiglio dei Dieci almeno ogni mercoledì, Maggior Consiglio ogni domenica. Poi, le innumerevoli “andate”, visite solenni a chiese, monasteri e confraternite di devozione, e processioni non meno solenni: nell’ultimo secolo dell’indipendenza veneziana, una trentina all’anno, contando le messe e i vesperi solenni nella basilica di San Marco, cappella dogale.
A questo calendario, alquanto impegnativo (”rari sono i zorni di riposo”, annotava Sanudo) si aggiunge quello dei ricevimenti in Palazzo Ducale, dalle visite di prammatica dei giovani nobili che incominciano la vita politica alle spose novelle che si recano con lo sposo e i parenti a “toccar la mano” al capo dello Stato, dall’incontro con i pescatori dell’isolotto di Poveglia, i quali, in memoria della loro partecipazione alla mitica difesa contro i Franchi di Carlomagno l’anno 810, avevano il privilegio di farsi ricevere dal doge, di baciarlo in viso e di pranzare con lui la domenica dopo l’Ascensione, alle visite dei rappresentanti delle arti e mestieri (i fruttivendoli vengono a offrirgli la primizia dei meloni, con gran chiasso di trombe e pifferi), ai grandi banchetti ufficiali che Sua Serenità deve offrire quattro volte all’anno, il giorno di Santo Stefano, il giorno di San Marco, quello dell’Ascensione e quello di San Vito, con lo scopo dichiarato di permettere contatti diretti e regolari tra il vertice dello Stato e un certo numero di magistrature.
Vita privata? Nell’appartamento a lui riservato in Palazzo Ducale, decorato e abbellito, naturalmente, a sue spese, spesso più che sontuosamente, il Serenissimo può, nelle poche ore libere da impegni ufficiali, fare quello che gli pare. Giovanni Bembo, rude uomo di mare, offre banchetti pubblici più splendidi di qualsiasi altro doge, ma, solo, mangia con gusto salumi e insalata fresca. Di Francesco Molin, doge dal 1646 al 1655, anche lui valoroso ammiraglio, si mormorava che si consolasse col vino degli acciacchi della vecchiaia, tanto che, alla sua morte, girò un epigramma dove si diceva che “prima di morir, per prender fiato, volse bever un gotto di moscato”. Passatempi assai diversi, i suoi, da quelli di Alvise iv Mocenigo, che, la sera, ascolta volentieri il cognato Marcantonio Corner suonare il violoncello accompagnato al clavicembalo dalla nuora, Francesca Grimani, mentre la dogaressa, Pisana Corner, gioca a tressette con le cugine e il “compare” Lodovico Rezzonico.
In Curia senator: un senatore come tutti gli altri. Il Senato, composto dei sessanta del Pregadi (in origine, era usanza che i senatori venissero convocati a domicilio, cioè “pregati” di recarsi a Palazzo) più i sessanta della Zonta, o aggiunta, più alcuni magistrati che ne facevano parte con o senza diritto di voto, era l’assemblea che esercitava il potere esecutivo; il Collegio, composto dal doge, dai sei consiglieri ducali (uno per sestiere di Venezia), e dai Savi del Consiglio, di Terraferma e agli Ordini, aveva attribuzioni miste, un po’ ufficio di presidenza del Senato, un po’ consiglio dei ministri. Il doge faceva parte di diritto di entrambi, anzi, virtualmente li presiedeva; lo stesso accadeva nel Consiglio dei Dieci, dove egli era presente assieme ai sei consiglieri ducali. Infine, nel Maggior Consiglio, corpo sovrano della Repubblica e fonte di ogni potere, egli solo aveva facoltà di proporre mozioni (non però da solo, ma di concerto con altri magistrati) e di prendere la parola ogni volta che lo ritenesse opportuno, restando al suo posto anziché recarsi, come gli altri oratori a una delle tribune allestite nella sala.
Dunque malgrado le numerosissime limitazioni imposte dalla “Promissione Ducale”, la legge costituzionale che egli doveva giurare appena eletto, il Serenissimo godeva di una posizione altamente privilegiata. Della quale un uomo politico sperimentato e intelligente, un parlamentare navigato poteva ampiamente valersi così da esercitare un potere effettivo sulle decisioni delle varie assemblee. Ma ciò non accadeva troppo spesso. Dal Cinquecento in poi gli elettori del doge prediligono sovente vecchioni decrepiti e possibilmente ricchissimi. Costoro, in pratica, non contano nulla o quasi nulla, non sono che “meschinissime larve” (è stato detto!), e il loro ruolo si limita alla figurazione esteriore, sempre fastosa ma vuota di ogni contenuto.
D’altra parte, una personalità robusta e autoritaria che non si piegasse alle alchimie della prassi parlamentare ma pretendesse di comandare in prima persona rischiava l’impopolarità se non l’ostilità del patriziato (e anche del popolino, sempre sensibile alle idiosincrasie dei maggiorenti). Il caso limite è rappresentato da Agostino Barbarigo, il doge dalla candida barba fluente che vediamo inginocchiato ai piedi della Vergine in una pala di Giambellino.
Era indubbiamente un bell’uomo, “de degna statura, de admiranda presentia” come scrive di lui il diarista Girolamo Priuli, era un uomo politico in vista, ed era fratello del doge Marco, del quale le malelingue dicevano che fosse morto in seguito a un violento alterco proprio con lui. Certo, Agostino era un caratteraccio che non tollerava contraddizioni e aveva un grande concetto di sé e della propria carica, tanto che si faceva baciare la mano dalle spose e dai giovani patrizi e addirittura permetteva che i visitatori gli si inginocchiassero davanti. In più, aveva, come è stato scritto, “una certa propensione ai buoni vini e alle vesti di pelliccia” e “una certa signorile trascuranza nel pagamento dei propri debiti”; soprattutto pareva che avesse anche accettato regali, cosa assolutamente non ammessa per il capo dello Stato, e, peggio che mai, in contanti. Fatto sta che quando morì, l’anno 1501, “era una meraveia udir le maleditioni ognun li dava”, come scrive Sanudo; e su di lui fu aperta un’inchiesta postuma che, quando fu conclusa, costrinse gli eredi a rimborsare allo Stato una grossa somma di danaro illegalmente percepita.